lunedì 30 aprile 2012

Mulino di “Duardu di Mareta” (Val Brevenna)


Ubicato a poche decine di metri dal bivio per Mareta, è posto immediatamente a valle della strada che risale la Val Brevenna, su di un pianoro soprastante l’ alveo dell’ omonimo torrente.

Raggiungibile un tempo con la strada comunale “Ciosso – Mareta” risulta disposto su due piani ed era alimentato direttamente dal torrente Brevenna tramite una ruota, probabilmente in legno, oggi scomparsa.

Al piano terra, addossato ad una fascia secondo il tradizionale costruire delle “case di pendio”, rimangono ben conservati, gli ingranaggi che facevano muovere due macine. Ancora parzialmente visibile la scaletta in legno di collegamento con il piano superiore.


Come arrivare

Come detto, poco prima della deviazione per la frazione di Mareta, si scorge sulla destra la copertura in lamiera. Si passa in corrispondenza di una varco nel guard rail e si raggiunge il fabbricato.


Il Mulino

Il mulino conserva i resti degli ingranaggi. In particolare il cosiddetto “castello” ovvero l' impalcatura interna in legno, che sostiene le macine e le tramogge oggi scomparse, al di sotto della quale sono posizionati gli ingranaggi e le ruote dentate

Sotto il “castello” si trovano due “ruote dentate o lubecchi”, in legno saldamente ancorate all’ albero orizzontale costituito da un grosso tronco. Il disco della ruota presenta una serie di denti, sempre in legno, di particolare forma e sezione adatti ad innestarsi nella “lanterna” o “rocchetto”  costituita da traversine cilindriche, detti “fusoli”.



Le macine sono formate da due mole dette anche “palmenti” fatte di grosse pietre in origine monolitiche, di forma circolare. La mola inferiore era fissa mentre quella superiore girava grazie al meccanismo sopra descritto; disponeva di un foro centrale attraverso il quale veniva fatto scendere il prodotto da macinare, regolato dalla tramoggia.

Le macine erano incise con canalette dall'interno all'esterno, la cui dimensione e forma variava in funzione del tipo di granaglia da macinare e della farina che si voleva ottenere.

Si possono ancora osservare le protezioni in legno delle macine che dovevano garantire la sicurezza di chi lavorava all’ interno del mulino e il meccanismo, sempre in legno, chiamato “arganello” che era utilizzato per sollevare la macina superiore.

Poiché le mole si usuravano rapidamente il mugnaio doveva periodicamente revisionarle, con un operazione che veniva detta “battere mola” che consisteva nella scalpellatura della superficie di pietra della mola


© Paolo De Lorenzi – 2012








domenica 29 aprile 2012

I Mulini di Frassineto (Val Brevenna)



Posti lungo la sponda destra dell’ omonimo rio, i Mulini di Frassineto, si possono oggi raggiungere abbastanza agevolmente dalla frazione di Ternano in Val Brevenna.

Oggi rimangono pochi ruderi dei due mulini una volta raggiungibili dalla frazione di Frassineto mediante “strada vicinale Frassineto Mulino”, oggi in parte scomparsa.

Del fabbricato posto più in alto costituito da due piccoli manufatti, rimangono solo i resti dei muri perimetrali ed una vecchia macina. Era alimentato con un beudo che correva a monte dei mulini che andava anche a fare girare la ruota, oggi scomparsa, del mulino posto più a valle.

Di quest’ ultimo manufatto, rimane, semi sepolta, una vecchia macina collegata ad una ruota completamente in legno, il che porta a pensare che siano più antichi di quelli di Vobbia e di Vigogna, che avevano ingranaggi in ferro.


Come arrivare

Dalla frazione di Ternano si prosegue in direzione di Frassineto, fino ad un ampio tornante con uno slargo, salendo sulla sinistra. Da qui comincia il sentiero che a mezza costa raggiunge l’ alveo del rio Frassineto. L’ ultimo tratto necessita di particolare attenzione in quanto, anche se non lungo, scende lungo la linea di massima pendenza su di un terreno bagnato e poco stabile. Qualche anima buona ha collocato qui una vecchia corda di nylon che aiuta sia nella discesa che nella salita (controllare l’ ancoraggio e la tenuta della corda).


I Mulini

Il mulino che ancora conserva visibili i resti degli ingranaggi è, come detto, quello posto più a valle. Una vecchia ruota completamente in legno è ancorata all’ albero orizzontale, costituito da un grosso tronco, cha faceva girare la soprastante macina, mediante la cosiddetta “lanterna” o “rocchetto”.

Rispetto ai mulini di Alpe di Vobbia o di Vigogna, i mulini di Frassineto avevano una macina unica ed avevano una meccanica molto più rudimentali ed erano sicuramente più antichi.


© Paolo De Lorenzi – 2012






giovedì 26 aprile 2012

Il Mulino di Vignogna (Vobbia)


Posto immediatamente a valle della frazione di Vigogna ad una quota di circa 997 mt., è collocato alla confluenza dei rivi “Gura” e “Vezzè”.

Il mulino era luogo di incontro ed uno dei punti più importanti della comunità contadina, dove si chiacchierava e si scambiavano notizie. Simbolo del lavoro e della fatica quotidiana, i mulini hanno scritto una pagina importante della storia delle nostre vallate.


Come arrivare

Da Vobbia si segue la strada per Mongiardino Ligure e dopo circa un chilometro, si prende il ponte sulla destra per le frazioni di Vallenzona, Arezzo ecc. (cartelli indicatori). Alla fine del ponte si gira a destra in direzione Vallenzona e dopo circa due chilometri, si raggiunge la frazione di Vigogna.

Poco sotto i due tornanti prima di arrivare alla piazza al centro del paese, sulla destra troviamo un piccolo slargo dove è possibile lasciare l’ auto. Si scende lungo le fasce sottostanti la strada per seguire alcune tracce che conducono in breve nell’ alveo del rio Gura, che si attraversa per risalire sulla sponda opposta dove è ubicato il mulino ed altri piccoli fabbricati.

Una sentiero più lungo ma più agevole è quello che si diparte da un tornante sotto l’ abitato di Vigogna, in corrispondenza di un rio. Una pista carrabile conduce sull’ alveo del torrente Vallenzona che si deve risalire fino al mulino. A valle del fabbricato si trova un piccolo manufatto abbastanza recente un tempo utilizzato dall’ Enel, che può servire come riferimento.



Il Mulino

Il mulino è disposto su due piani: al piano terra c’ è la stanza dove sono  alloggiati i meccanismi e le macine, che risulta accessibile da un porta sul prospetto nord, mentre la ruota completamente in ferro risulta ubicata sul lato opposto.

Al piano superiore vi era l’ abitazione del mugnaio, oggetto di recenti e discutibili interventi di ripristino ed oggi abbandonata.

Anche questo mulino, così come quello di Alpe di Vobbia era alimentato da una grossa vasca, posta a monte del fabbricato, che con un beudo, captava l’ acqua dal rio Cornareto.

Dalla vasca l’ acqua veniva convogliata al mulino con una condotta in ferro realizzata dalla “Officina di Costruzioni in Ferro di Canepa Cesare & Vittorio F.lli – San Quirico 1893”, come indicato nella tramoggia posta superiormente alla ruota esterna.



Come funzionava

Il Mulino era alimentato da un condotta che convogliava l’ acqua dalla vasca di accumulo alla ruota esterna in ferro, che a caduta faceva girare la ruota.

Girando, la ruota trasmetteva il movimento circolare ad un’ altra ruota dentata in ferro posta all’ interno del mulino, che faceva girare un asse orizzontale sul quale erano fissate due ruote verticali in ferro con denti in legno.

Il movimento delle ruote dentate era trasmesso a due alberi a cammi montati su di un asse verticale, che trasformava il movimento da orizzontale a verticale facendo ruotare il palmento mobile.

Sulle estremità superiori dei due assi verticali erano posizionate le macine formate da una parte fissa – quella inferiore – e da una parte mobile che ruotava grazie al meccanismo appena descritto, mentre il prodotto veniva inserito in un foro centrale (bocca) attraverso una tramoggia.
  

Quando il palmento mobile si appoggia su quello fisso e si mette in moto, si ottiene lo sgretolamento del prodotto, che una volta macinato, scende attraverso le scanalature, cadendo all'interno di appositi cassoni in legno.

L’ acqua faceva anche funzionare, tramite un sistema di carrucole e cinghie una macchinario ancora ben conservato che serviva per la pulitura dei cereali ovvero per dividere i chicchi dal resto della spiga.

Sulla parte sud del fabbricato, è ubicata la grossa ruota, completamente in ferro ed ancora ottimamente conservata. Sulla parte superiore la tubazione di alimentazione con una grossa tramoggia dotata di una paratia mobile, allo scopo di interrompere il flusso d’ acqua per fare manutenzione al mulino in caso di necessità.



© Paolo De Lorenzi – 2012







  











domenica 22 aprile 2012

Mulino di Alpe di Vobbia


Ho scoperto il Mulino di Alpe di Vobbia quasi per caso, scorgendo la sua ruota dal Passo dell’ Incisa. Quello che mi ha colpito è stato che, a differenza di altre strutture di questo tipo, la copertura era quasi integra, segno che anche la conservazione dell’ interno poteva essere in buone condizioni.

E’ partita allora la ricerca storica e cartografica. La prima con scarsissimi risultati, mentre la seconda, grazie alla consultazione delle mappe catastali di impianto, le cosiddette “canapine”, mi ha permesso di individuare il fabbricato, identificato con il toponimo “Mulino d’ Alpe”.

Dalle carte consultate, tra le quali la C.T.R. in scala 1:5000, si individuavano due accessi principali: uno da Alpe di Vobbia ed un altro dalla strada che una volta raggiungeva il paese di Costa Clavarezza.

Ho fatto alcuni tentativi da Alpe di Vobbia, frazione collegata un tempo con una mulattiera con la frazione di Costa Clavarezza, che passava a lato del mulino; purtroppo, come spesso accade, queste vecchie mulattiere non sono più rintracciabili se non per brevissimi tratti.

Allora ho provato un'altra strada: raggiungere il mulino dal basso, seguendo quello che rimane della strada carrabile che da Vobbia raggiunge Costa di Clavarezza, oggi franata in alcuni punti a seguito dell’ alluvione del 2000.

Il percorso risale il Torrente Fabio in sponda destra, fino alla quota di 584,00 dove si incontra il ponte che lo attraversa. Da questo punto in poi si segue la strada che sale a Costa di Clavarezza fino al primo tornante, per seguire quindi il sentiero che risale il torrente Fabio in sponda sinistra.

Il sentiero attraversa un bosco di castagni secolari e risulta evidente delimitato per alcuni tratti da muri a secco, fino a raggiungere una radura a quota 635,00. Da questo punto in poi è necessario scendere sul greto del torrente Fabio e risalire dalla sponda opposta, in corrispondenza del rio Acqua Fredda, affluente del torrente Fabio. Si riprende quindi il sentiero che conduce in breve al pianoro a quota 694,00 dove sorge il mulino.




Il Mulino

Il mulino è disposto su tre piani: al piano terra c’ è la stanza dove sono  alloggiati i meccanismi e le macine. La zona risulta sopraelevata di circa un metro rispetto al terreno circostante ed è accessibile mediante alcuni scalini in pietra. Le macine sono poste superiormente agli ingranaggi ed accessibili tramite un piccola porticina laterale da dove il mugnaio alimentava le tramogge poste sopra le macine.

A lato del mulino un'altra stanza destinata a cantina, mentre al piano superiore era posizionata l’ abitazione del mugnaio; evidenti ancora i resti di un vecchio forno con volta in pietra, impiegato probabilmente per la cottura del pane. Sempre al piano della cucina c'era anche un "abergo" ovvero un vano per la seccatura delle castagne.

Per il bestiame ed il fieno erano presenti due cascine a monte del mulino, mentre il terreno circostante era coltivato con alberi di frutta e perfino un vigneto.

Rispetto ad altri mulini della zona, il Mulino d’ Alpe ha una caratteristica che lo contraddistingue dagli altri: era alimentato da una grossa vasca, posta a monte del fabbricato, che con un beudo, captava l’ acqua dal rio dei Cugni.

Evidentemente la sua posizione orografica nella parte alta della valle del rio Fabio, non assicurava la necessaria quantità di acqua anche durante i periodi di maggiore siccità e quindi la necessita di avere questa grossa vasca di accumulo.

Dalla vasca di accumulo semi interrata delle dimensioni di circa 12 x 5 mt., l’ acqua veniva convogliata al mulino con una condotta oggi scomparsa, probabilmente costituita da tubi in ferro.

Dalle ricerche eseguite sulla cartografia, soprattutto catastale, il mulino era collegato sia con Alpe di Vobbia che con il paese di Costa di Clavarezza tramite “strada comunale”.


Come funzionava

Il Mulino d’ Alpe era, come detto, alimentato da un condotta che convogliava l’ acqua dalla vasca di accumulo alla ruota esterna costituita da una parte centrale in ferro, raggi in legno ed una parte esterna realizzata sempre in ferro imbullonato dove veniva convogliata l’ acqua che a caduta imprimeva il movimento rotatorio.

Girando, la ruota trasmetteva il movimento ad un’ altra ruota dentata in ferro posta all’ interno del mulino, che faceva girare un asse orizzontale sul quale erano fissate due ruote verticali in ferro con denti in legno.

Il movimento delle ruote dentate era trasmesso a due alberi a cammi montati su di un asse verticale, che trasformava il movimento da orizzontale a verticale facendo ruotare il palmento mobile, formato da una macina fissa – quella inferiore – e da una mobile che ruotava grazie al meccanismo appena descritto.

I volantini che si vedono nelle foto, uno per ciascuna macina, servivano per regolare lo spessore del prodotto da macinare (grano, castagne ecc.), che veniva inserito in un foro centrale (bocca) attraverso una tramoggia a forma di cono trapezoidale rovesciato.
  
Quando il palmento mobile si appoggiava su quello fisso e si metteva in moto, si otteneva lo sgretolamento del prodotto, che una volta macinato, scendeva attraverso le scanalature, ancora visibili, cadendo all'interno di appositi cassoni in legno, alcuni dei quali ancora presenti all’ interno del mulino.

L’ avere due macine aveva una duplice valenza: potere macinare il doppio del prodotto, ma più verosimilmente, macinare contemporaneamente due prodotti diversi. Nel nostro caso una era destinata esclusivamente al grano, l'altra serviva per ogni altro prodotto, specialmente mais e castagne.

Si può ancora notare, alle spalle delle macine, la struttura in ferro che serviva per sollevare la loro parte superiore per le operazioni di sostituzione in funzione del grado di macinatura richiesto.


© Paolo De Lorenzi – aprile 2012














lunedì 16 aprile 2012

Chiesa di San Ruffino di Cerendero


Il documento più antico relativo alla chiesa di San Ruffino di Cerendero è datato 25 novembre 1248.

La chiesa fu attiva fino al 18 gennaio 1475, quando per rinuncia del rettore su richiesta della famiglia Spinola, venne incorporata alla Plebana di Mongiardino, alla quale rimase unita fino al 14 novembre 1647 per poi ritornare nuovamente parrocchia indipendente.

Il 14 novembre 1647 si legge che la chiesa di San Rufino "de Cerenderio" sita nel territorio della parrocchia di San Giovanni Battista di Carranza "loci Mongiardino" è fatta parrocchia dal Cardinale Durazzo, separata dalla chiesa di Carranza, ed assegnata, come a suo primo rettore, al prete tortonese Tomaso Morando.

Nell’ anno 1915 don Agostino Tambutto parroco di Cerendero ringraziava i benefattori: "si impegno nella fabbricazione totalmente nuova e della chiesa parrocchiale, e del campanile e della canonica".

Il progetto fu affidato all' ing. Balbi, ed all’ impresario e capomastro, Giovanni Battista Maffeo detto "O Baccin" di Arezzo di Vobbia.

La cifra pattuita era di lire 5.900, ma la realizzazione della facciata non era compresa nel prezzo. A carico di San Ruffino anche la demolizione della vecchia chiesa e lo scavo per le fondamenta della nuova.
Il contratto è firmato nel 1898 dal parroco Agostino Tambutto, dal presidente della fabbriceria Giacomo Ratto, da altri fabbriceri e dall’ appaltatore Giovanni Battista Maffeo.
La prima pietra della chiesa venne posata il 26 giugno 1898, quella del campanile, il 15 luglio 1901.
San Ruffino viene consacrata il 17 luglio 1904.

Dai documenti dell’archivio parrocchiale risulta che la chiesa fu riparata più volte a partire dal 1790. Nel primo ventennio del 1800 l’arciprete di Mongiardino chiede all’intendente generale della provincia di Genova gli aiuti necessari a riparare la chiesa rovinata nel tetto.
Attualmente chiusa e dichiarata inagibile, sta precipitando poco a poco. Rimangono ancora le strutture murarie ancorchè gravemente compromesse e la copertura anche se si segnalano infiltrazioni che non promettono nulla di buono sulla conservazione.
Ancora visibili gli affreschi sulla volta e sulle pareti laterali in corrispondenza dell’ ingresso principale.
La chiesa a navata unica, ha un imponente campanile ed una annessa canonica disposta su tre piani in pessimo stato di conservazione.
Fonte: Arcidiocesi di Genova Relazione di ricerca nell’archivio parrocchiale di San Ruffino di Cerendero di Arrigo Boccioni.